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Il declino del Dollaro: un'opportunità per l'Euro?

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Per decenni, il dollaro americano ha rappresentato la valuta di riserva globale per eccellenza, sostenuto dalla potenza economica degli Stati Uniti, da istituzioni robuste e dalla fiducia che i mercati internazionali riponevano nel sistema americano. Tuttavia, con l’arrivo di un secondo mandato per Donald Trump, questo equilibrio storico sembra vacillare. Squilibri di bilancio, uso politico della leva finanziaria e un calo della credibilità internazionale stanno mettendo in discussione il cosiddetto “privilegio esorbitante” del dollaro. Il "Liberation Day", simbolo della visione trumpiana, ha segnato un possibile punto di svolta: ha innescato dinamiche che rendono più evidente la fragilità del predominio della valuta americana. Per l’euro, si apre una finestra storica di opportunità. Ma solo se riuscirà a proporsi come alternativa credibile e a rafforzare la propria struttura istituzionale.

Una moneta che è anche infrastruttura di potere

Il dollaro non è solo uno strumento di pagamento: è il cuore pulsante della finanza globale. Quotidianamente, oltre 7 trilioni di dollari transitano sui mercati valutari. È la valuta in cui si detengono la maggior parte delle riserve delle banche centrali, quella in cui si emettono le fatture internazionali e in cui si rifugiano gli investitori nei momenti di incertezza.

Come ha raggiunto una tale centralità? E oggi, quella posizione è davvero ancora inattaccabile?

Cos’è una valuta di riserva globale

Una valuta di riserva è una moneta detenuta in grandi quantità da istituzioni internazionali per facilitare gli scambi commerciali, gestire riserve valutarie e fornire stabilità economica interna. Serve per le transazioni internazionali, la gestione del debito sovrano e come ancora di salvezza in tempi di turbolenza finanziaria.

Il privilegio del dollaro spiegato dagli economisti

Nel libro Exorbitant Privilege, l’economista Barry Eichengreen descrive come la centralità del dollaro non sia soltanto frutto della forza economica degli Stati Uniti, ma anche di fattori militari, scelte istituzionali e contingenze geopolitiche favorevoli. Dopo la fine degli accordi di Bretton Woods e l’abbandono del gold standard, il dollaro ha mantenuto la propria centralità grazie a mercati ampi e liquidi, istituzioni affidabili e un alto grado di fiducia.

Negli ultimi decenni, però, questa fiducia si sta erodendo. La quota di dollari nelle riserve globali è scesa dal 72% nel 1990 al 58% oggi, segnalando l’ingresso in scena di nuove valute come l’euro e il renminbi cinese, ma anche un cambiamento di percezione sul ruolo globale del dollaro.

Il “privilegio esorbitante” come rendita e responsabilità

Questo ruolo unico permette agli Stati Uniti di emettere debito in una valuta richiesta da tutto il mondo. Economisti come Gourinchas e Rey descrivono gli USA come il “banchiere del pianeta”: emettono passività sicure (i Treasury bond) e investono in asset più rischiosi, ottenendo rendimenti superiori. Il resto del mondo paga, di fatto, una sorta di premio agli Stati Uniti per la stabilità offerta.

Ma questo meccanismo si inverte nei momenti di crisi. Quando gli investitori fuggono verso asset sicuri, il dollaro si rafforza e gli USA vedono svalutarsi gli investimenti esteri in altre valute. Durante la crisi del 2008, questa dinamica ha comportato perdite stimate intorno al 19% del PIL statunitense: un’assicurazione globale che diventa costosa nei momenti di instabilità.

Un dollaro forte è davvero il nemico dell’industria americana?

Trump ha spesso sostenuto che un dollaro troppo forte danneggia l’export e penalizza il settore manifatturiero. Ma i dati raccontano un’altra storia: tra il 2001 e il 2008, il dollaro si è indebolito sensibilmente, eppure l’industria ha continuato a perdere milioni di posti di lavoro. Le vere cause? L’automazione e la delocalizzazione.

Oggi, l’industria statunitense non ha bisogno di barriere protezionistiche, ma di investimenti tecnologici per competere in settori innovativi come i veicoli autonomi e le tecnologie verdi. Importazioni e innovazione vanno di pari passo: bloccare i prodotti esteri significa ostacolare le catene del valore globali da cui dipendono proprio le esportazioni americane più avanzate.

Un sistema basato sulla fiducia

Il dominio del dollaro si regge sulla fiducia collettiva nella capacità degli Stati Uniti di onorare il proprio debito e garantire stabilità. Ma quando il debito pubblico cresce oltre un certo limite – difficile da definire, ma cruciale – anche questa fiducia può vacillare. Il sistema basato sulla richiesta globale di asset sicuri in dollari può incepparsi, generando un effetto domino che colpisce i mercati, i tassi di interesse e l’intero equilibrio fiscale statunitense.

Dal potere al rischio: l’uso geopolitico del dollaro

Negli ultimi anni, il dollaro è stato usato non solo come strumento economico, ma anche politico. L’amministrazione Trump ha fatto largo uso di sanzioni finanziarie e dazi, minando l’immagine del dollaro come moneta neutrale e globale. A ciò si è aggiunta la crescente pressione sulla Federal Reserve, con interferenze che hanno compromesso l’indipendenza istituzionale della banca centrale.

La vera minaccia non è la concorrenza di altre valute, ma la graduale erosione delle condizioni che hanno reso il dollaro il fulcro del sistema internazionale: prevedibilità, stabilità e fiducia.

2 aprile 2025: il giorno della frattura

Il cosiddetto “Liberation Day”, il 2 aprile 2025, ha segnato un punto di non ritorno. Con un nuovo pacchetto di misure protezionistiche e sanzioni, gli Stati Uniti hanno generato un'ondata di sfiducia: il dollaro si è indebolito, i tassi sono saliti, e per la prima volta da tempo le due dinamiche si sono mosse insieme. Un comportamento tipico dei mercati emergenti, non di una superpotenza.

L’euro come alternativa possibile

Nonostante tutto, il dollaro conserva ancora vantaggi strutturali difficili da replicare. Ma l’instabilità crescente apre un varco per l’euro. Per coglierlo, però, l’Europa deve affrontare due sfide fondamentali: costruire un asset sicuro comune, simile ai Treasury americani, e rafforzare la propria unione fiscale e dei capitali.

Serve visione, volontà politica e una riforma coraggiosa dell’architettura dell’eurozona. Solo così la moneta unica potrà candidarsi a diventare un vero pilastro del nuovo ordine monetario multipolare.

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