
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025, la politica commerciale statunitense ha subito un'accelerazione verso il protezionismo. A meno di tre mesi dall'inizio del suo secondo mandato, l'amministrazione ha introdotto una serie di dazi generalizzati, tra cui un'imposta del 10% su tutte le importazioni e tariffe "reciproche" più elevate per paesi come Cina, Canada e Messico.
Queste misure hanno suscitato preoccupazioni tra economisti e leader aziendali, che temono un impatto negativo sull'economia globale e sulla credibilità degli Stati Uniti come leader del commercio internazionale
Come sosteneva il generale prussiano Carl von Clausewitz nel suo celebre trattato Della guerra, il conflitto armato è soltanto la prosecuzione della politica con altri strumenti. Possiamo adattare questa riflessione alla sfera economica e dire che una guerra commerciale rappresenta l’estensione della politica economica attraverso strumenti non convenzionali, anticipando in certi casi persino tensioni più ampie.
La logica dietro la pace commerciale
Per capire cosa sia una guerra commerciale, bisogna prima comprendere la pace commerciale. Quest’ultima non è sinonimo di anarchia commerciale, bensì di un sistema altamente regolamentato. Gli stati si muovono seguendo protocolli rigorosi, sanciti da trattati multilaterali sotto l’ombrello dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), che stabilisce cosa è lecito e cosa non lo è.
Sebbene spesso descritta come promotrice del libero scambio, l’OMC in realtà permette anche l’uso di dazi e altre misure protettive, purché siano limitate e coerenti con l’obiettivo di tutelare una competizione equa e trasparente. Le regole cardine sono quelle della non discriminazione: la clausola della nazione più favorita, che obbliga a trattare tutti i partner commerciali allo stesso modo, e il principio del trattamento nazionale, che impone parità tra beni locali e importati una volta entrati nel mercato.
Sono previste anche norme per contrastare pratiche scorrette come il dumping – vendere sotto costo per accaparrarsi quote di mercato – o i sussidi pubblici sleali. Quando si verificano violazioni, gli stati possono reagire, ma solo dopo aver seguito un iter stabilito e aver ottenuto l’autorizzazione dell’OMC a imporre eventuali sanzioni. I dazi, in questo contesto, diventano strumenti di “diplomazia economica”, non atti ostili.
Quando i dazi diventano armi
I dazi si trasformano in strumenti di conflitto quando vengono imposti unilateralmente, al di fuori delle procedure previste dall'OMC. Nel 2025, l'amministrazione Trump ha introdotto dazi significativi senza consultazioni multilaterali, giustificandoli come misure per correggere squilibri commerciali. Questa azione ha scatenato reazioni immediate da parte di partner commerciali, con la Cina che ha aumentato le proprie tariffe fino all'84% su alcuni prodotti statunitensi.
La risposta internazionale è stata critica, con l'Unione Europea e la Cina che hanno riaffermato il loro impegno per un sistema commerciale multilaterale basato su regole condivise. Nel frattempo, l'amministrazione Trump ha temporaneamente sospeso alcuni dazi, come quelli su smartphone e computer, nel tentativo di mitigare le tensioni .
La Cina non resta a guardare
Dietro l’enfasi retorica delle dichiarazioni – con tanto di lettere maiuscole e slogan populisti – si celano due errori fondamentali.
Il primo è l’idea che un disavanzo commerciale equivalga a una perdita economica. In realtà, l’import-export è uno scambio di beni e servizi: se importiamo più di quanto esportiamo, stiamo semplicemente acquistando ciò che non produciamo internamente, finanziandoci con risorse esterne. Talvolta conviene esportare di più, altre volte importare di più. In entrambi i casi, le transazioni possono avere senso economico.
Il secondo errore è credere che le guerre commerciali siano facili da vincere. La realtà dimostra il contrario: quando anche il paese avversario ha “muscoli” ben allenati, il conflitto si trasforma in uno stallo. È quanto è accaduto tra USA e Cina durante il primo mandato Trump. Ogni dazio statunitense è stato seguito da una contromisura cinese, in una spirale di ritorsioni culminata nell’“accordo di fase uno” del gennaio 2020. Il risultato? Una corsa al rialzo dei dazi e uno scenario di forte tensione commerciale.
Chi ha pagato davvero il prezzo?
Numerosi studi hanno analizzato le conseguenze economiche di quella guerra commerciale. La maggior parte mostra che i dazi USA non hanno portato benefici rilevanti all’occupazione nei settori protetti, mentre i danni si sono visti soprattutto nei comparti colpiti dalle ritorsioni, come quello agricolo. Inoltre, i costi dei dazi sono stati in gran parte sostenuti da consumatori e imprese americane, e non dagli esportatori stranieri, con l’eccezione di alcuni settori come l’acciaio.
Il protezionismo ha quindi ridotto sia le importazioni che le esportazioni statunitensi, con un effetto negativo sul reddito nazionale reale. In alcuni casi, i danni interni derivanti dai dazi imposti da Washington hanno superato quelli causati dalle contromisure straniere. Un boomerang che si è ritorto contro gli stessi promotori.
Quando la filosofia anticipa la politica
Nel Libro II della Repubblica, Platone – attraverso il dialogo tra Socrate e Glaucone – riflette sull’utilità della divisione del lavoro e della specializzazione all’interno della polis. Ma per rendere possibile tale specializzazione, osserva, è indispensabile commerciare con l’esterno. Una città chiusa in sé stessa non può prosperare.
Per ottenere beni che non produce, una comunità deve produrre abbastanza per soddisfare il fabbisogno interno e offrire surplus in cambio. Se decide invece di chiudersi, sarà costretta ad espandersi per conquistare ciò che le manca: “E allora faremo la guerra, Glaucone?”. “Andrà a finire così”.
A distanza di secoli, quelle parole sembrano descrivere perfettamente il contesto attuale.
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