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Il primo anno di Javier Milei: tra rigore fiscale e sfida al sistema

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Nel corso del suo primo anno alla guida dell’Argentina, il presidente Javier Milei si è concentrato su due nodi strutturali che da decenni imbrigliano l’economia nazionale: l’insostenibile disavanzo pubblico e l’asfissiante rete di regolamentazioni che ostacolano la libera iniziativa e la competitività del Paese. Due emergenze cronicizzate, alimentate da un intreccio di interessi corporativi e rendite parassitarie, che hanno sostituito il dinamismo economico con un sistema di privilegi per pochi.

La strategia dell’amministrazione Milei ha prodotto risultati iniziali significativi, tra cui una netta riduzione del deficit fiscale. Tuttavia, questi traguardi sono stati raggiunti principalmente attraverso misure d’urgenza – tagli drastici alla spesa pubblica e l’effetto contabile di un’inflazione esplosiva – piuttosto che mediante riforme strutturali di lungo periodo. Proprio per questo, rimangono aperti interrogativi rilevanti sulla sostenibilità della trasformazione avviata e sulla sua capacità di resistere nel tempo.

Le elezioni di metà mandato previste per il 2025 diventano quindi un passaggio cruciale: potrebbero fornire al presidente la maggioranza parlamentare necessaria per consolidare il suo programma, oppure segnare il ritorno al potere dei partiti d’opposizione, come spesso accade nella tormentata storia politica argentina.

 

Dal sogno di potenza al declino costante

Alla fine dell’Ottocento, l’Argentina era considerata una potenza emergente: il suo reddito pro capite rappresentava circa il 66% di quello degli Stati Uniti, e Buenos Aires veniva spesso paragonata alle capitali europee per eleganza e sviluppo urbano. Tuttavia, questo vantaggio competitivo si è progressivamente eroso. Nel 2022, il reddito medio argentino rappresentava appena il 31% di quello statunitense, avvicinandosi alla media regionale sudamericana (25%) e segnando il fallimento di oltre un secolo di scelte politiche sbagliate e discontinuità istituzionali.

Nel frattempo, diversi paesi latinoamericani sono riusciti a intraprendere un cammino di maggiore stabilità economica. Negli ultimi venticinque anni, il Sud America ha registrato un’inflazione media inferiore al 5%, dimostrando una crescente maturità nella gestione delle politiche macroeconomiche. L’Argentina, al contrario, è rimasta intrappolata in cicli inflazionistici ricorrenti, con una media annua che ha superato abbondantemente il 30%, riflettendo la continua erosione della fiducia nella sua valuta e nella sua classe dirigente.

 

Un presidente fuori dagli schemi

La progressiva marginalizzazione dell’Argentina è imputabile a una lunga sequenza di fallimenti sia politici che economici. Il cronico squilibrio dei conti pubblici e la tendenza a chiudersi al commercio internazionale, spesso sotto la pressione di potenti lobby protettive, hanno creato un ecosistema economico autoreferenziale e poco competitivo.

È in questo contesto critico che, nel novembre 2023, Javier Milei – economista libertario e figura estranea all’establishment politico tradizionale – è stato eletto presidente. La sua vittoria ha rappresentato un rifiuto netto del sistema precedente e un’apertura, almeno teorica, a riforme radicali in senso liberista. A un anno dal suo insediamento alla Casa Rosada, il suo governo può già rivendicare alcuni successi: il raggiungimento del pareggio di bilancio primario, la rimozione di molte barriere regolatorie e l’indebolimento di quei gruppi d’interesse che per anni hanno influenzato le politiche economiche in chiave corporativa.

Tuttavia, il progetto di Milei va ben oltre la semplice stabilizzazione macroeconomica: punta a un ridimensionamento drastico del ruolo dello Stato, sia nell’economia che nella società. Un obiettivo ambizioso che, per sua stessa ammissione, richiederà almeno vent’anni per essere pienamente realizzato.

 

Le due zavorre dell’economia argentina

Analizzando le azioni del governo nel primo anno di mandato, è evidente che l’esecutivo ha concentrato gli sforzi su due fronti principali: il disavanzo fiscale cronico e l’isolamento commerciale dell’Argentina.

Il primo problema ha condannato il paese a una serie di default sul debito sovrano, generando un circolo vizioso: l’impossibilità di accedere a capitali sui mercati internazionali ha portato a un blocco degli investimenti pubblici e privati, che ha a sua volta aggravato la recessione e alimentato l’inflazione. Quest’ultima è diventata lo strumento di finanziamento indiretto dello Stato, con tutte le conseguenze devastanti sull’economia reale e sul potere d’acquisto dei cittadini.

Il secondo problema, l’isolamento economico, ha prodotto una vera e propria trappola protezionista. Per difendere le industrie locali da una concorrenza globale percepita come minacciosa, il paese ha adottato politiche commerciali restrittive che hanno finito per penalizzare proprio quei settori che più avevano bisogno di innovare ed espandersi. Oggi, l’indice di apertura commerciale dell’Argentina – calcolato come somma di esportazioni e importazioni rispetto al PIL – è il più basso di tutta l’America Latina.

Affrontare questi due problemi richiede ben più che semplici aggiustamenti di bilancio: serve una discontinuità culturale e istituzionale che rompa con decenni di compromessi, privilegi e rendite parassitarie.

 

Una terapia d’urto

Sul piano fiscale, Milei ha messo in atto un consolidamento senza precedenti nella storia recente del paese. Grazie a una politica di tagli radicali alla spesa sociale – comprese pensioni, trasferimenti e investimenti – ha riportato il bilancio verso l’equilibrio, approfittando nel frattempo di un’inflazione superiore al 116% che ha eroso il valore reale delle uscite pubbliche. Nel frattempo, i salari e le pensioni sono cresciuti solo del 73%, contribuendo a un risparmio netto ma a un impoverimento relativo della popolazione.

In parallelo, il governo ha riformulato il meccanismo di indicizzazione delle pensioni, in modo che l’adeguamento sia sistematicamente inferiore all’inflazione, garantendo così risparmi strutturali nel lungo periodo.

Nonostante le tensioni sociali e il costo politico elevato, va riconosciuto che Milei ha dimostrato maggiore determinazione rispetto ai suoi predecessori nel contenere la spesa pubblica, bloccando persino aumenti già approvati dal Congresso. Questo ha contribuito a rafforzare la credibilità del paese sui mercati internazionali, riducendo il rischio percepito dagli investitori.

 

Le ombre del futuro

Tuttavia, la vera incognita per il futuro dell’Argentina riguarda la politica monetaria e valutaria. Nei primi giorni del mandato, Milei ha operato una maxi-svalutazione del peso, del 118%, che ha migliorato temporaneamente la competitività. In seguito, l’amministrazione ha imposto una politica monetaria restrittiva, limitando l’espansione del credito e frenando la svalutazione. Nonostante ciò, l’inflazione mensile resta elevata – oltre il 6% – minacciando la stabilità conquistata e vanificando i benefici ottenuti.

Le riserve nette della Banca Centrale sono prossime allo zero e i controlli sui capitali, seppur parzialmente alleggeriti, restano in vigore. Il tasso di cambio ufficiale del peso continua a divergere da quello di mercato, con uno scarto persistente del 14%. Questo doppio regime valutario scoraggia gli investimenti stranieri, alimenta il mercato nero e compromette la credibilità della politica economica.

 

Deregolamentazione e riforme

Nel campo delle liberalizzazioni, Milei ha fatto leva su quanto consentito dall’autorità esecutiva. Ha adottato misure forti e simboliche, come l’apertura del settore dell’aviazione civile e la cancellazione della legge sugli affitti che aveva irrigidito il mercato immobiliare. Ha avviato anche una timida riforma del mercato del lavoro, con l’intento di ridurre il fenomeno dell’occupazione informale.

Tuttavia, l’assenza di una maggioranza parlamentare complica l’avanzamento di ulteriori riforme. Il progetto riformista di Milei evoca quello di Carlos Menem negli anni ’90, quando l’Argentina varò privatizzazioni su larga scala e ottenne stabilità temporanea. Ma la storia insegna che i successi ottenuti in Argentina possono essere rapidamente cancellati da svolte politiche improvvise.

 

Il test delle urne

La linea rigorista ha prodotto una contrazione dell’economia nel breve termine, ma Milei gode ancora di un ampio consenso popolare. La sua narrazione di “medicina amara” sembra funzionare, soprattutto ora che l’inflazione sta rallentando e le proiezioni indicano una ripresa del PIL.

Le elezioni di metà mandato del 2025 saranno un momento chiave: il presidente punta a conquistare almeno una delle due camere, così da rafforzare la sua capacità legislativa e mantenere i poteri delegati che gli consentono di modificare il bilancio senza dover passare per il Congresso. Senza questo controllo, ogni riforma rischia di restare lettera morta o di essere bloccata dall’opposizione.

Ma vincere nel 2025 non basterà. Milei dovrà anche evitare che il blocco populista legato al kirchnerismo torni competitivo in vista delle presidenziali del 2027. La vera sfida sarà quindi politica: attuare riforme incisive ma senza alienarsi il consenso di una popolazione stremata, che chiede soprattutto crescita, stabilità e migliori condizioni di vita. In questo delicato equilibrio si gioca il futuro dell’Argentina.

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